La sindrome da alienazione parentale: quando la realtà va oltre le classificazioni

L’essere umano ha bisogno di etichettare.

Il nostro cervello ha bisogno di etichettare.

Ha la necessità di mettere ordine, di catalogare, di incasellare in categorie definite, in generale di semplificare la complessità della realtà in cui siamo immersi.

Se ci riflettiamo, etichettare ha anche una funzione difensiva: risponde al bisogno di confinare, secondo una logica insiemistica, ciò che è altro da noi. E’ fuor di dubbio che questo processo sia utile a massimizzare risorse cognitive e a risparmiare tempo tuttavia, nel caso della cosiddetta PAS (al secolo “Sindrome da Alienazione Parentale”, fenomeno che si sostanzia in una controversa dinamica psicologica disfunzionale, in cui è in atto un vero e proprio rifiuto di uno dei due genitori da parte di un figlio, causato o influenzato dall’altro genitore), è stato fonte di informazioni contraddittorie e in alcuni casi alla base di un processo di negazione di un fenomeno inequivocabile ed oggettivo. Questo perché, rispetto alla PAS, il bisogno di etichettare si è esteso sino al “dovere” di affliggere ad essa un’etichetta nosografica e fino all’estremismo di doverla inquadrare come sindrome clinica al fine di essere considerata degna di nota lungo tortuosi iter di innumerevoli percorsi processuali.

Ebbene sì: ogni tanto si arriva all’integralismo tassonomico. Sei nel DSM? Esisti (ricordiamo che il DSM è il Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali, la Sacra Bibbia delle classificazioni psichiatriche oggi giunto alla quinta edizione). La regola sembra essere “DSM ergo sum”.

Uno degli aspetti che probabilmente ha concorso nel creare il grosso misunderstanding circa la legittimità della presenza della PAS nei fascicoli di innumerevoli procedimenti giuridici di separazione e divorzio è partito proprio dall’utilizzo del termine “SINDROME”, il cui significato rimanda al concetto di malattia classicamente inteso, come “stato patologico di un organo o di tutto l’organismo” (Voc. Treccani).

Se non si fosse utilizzata la parola sindrome forse non ci sarebbe stata una diatriba così accanita, tra gli accademici prima e nelle aule di tribunale poi, circa l’ammissibilità o addirittura l’esistenza di detta sindrome, estesa, talvolta, fino alla negazione dei danni che può produrre l’esclusione di uno dei genitori dalla vita di un figlio.

La Task Force di cattedratici incaricata della stesura del DSM5 concluse che l’alienazione parentale non potesse essere descritta nel manuale, in quando “non trova collocazione nel figlio” e cioè si tratterebbe piuttosto di un “problema relazionale genitore-figlio”.

Come sottolineato dai professori Bernet, Camerini e Gulotta, tuttavia, lo stesso problema relazionale genitore-figlio nel DSM5 (attualmente in vigore) viene descritto con queste parole: “problemi cognitivi possono comprendere attribuzioni negative delle intenzioni altrui, ostilità verso gli altri o rendere gli altri capro espiatorio, e sentimenti non giustificati di alienazione”.

E’ evidente che tra “sentimenti non giustificati di alienazione” e “sindrome da alienazione”, entrambi con tutte le conseguenze del caso, il passo è breve.

Un confine sottile lungo un filo spinato terminologico.

Di qui in poi scriveremo dunque “PAS” tra virgolette per buona pace dei puristi delle classificazioni, ma senza guastare l’intenzione di mandare un messaggio di flessibilità. Ciò che va tenuto a mente, soprattutto da chi per professione ha a che fare con la “PAS” è che irrigidirsi sui termini non serve.

I termini vanno e vengono, le classificazioni vengono aggiornate. Un tempo l’epilessia era considerata una patologia meramente psichiatrica, i pazienti psichiatrici erano chiamati alienati, lunatici ecc…

Con la mancata dignità scientifica permessa dall’inclusione del DSM dell’alienazione parentale spesso sono trascurati esiti di dinamche familiari a dir poco disfunzionali che vedono rifiutato, svalutato, emarginato, escluso uno dei genitori. Esiti che, quelli sì, spesso si sostanziano in disturbi classificabili nei vari DSM o ICD, a partire da forme psichiatriche transitorie o croniche (citiamo ad titolo esemplificativo i disturbi dell’attaccamento, i disturbi dell’umore, i disturbi di personalità, la tendenza all’abuso di alcol e di sostanze ecc…) fino a situazioni gravi ed estremamente complesse dal punto di vista bio-psico-sociale.

E’ vero, occorre assolutamente essere oculati poiché la confusione tra “PAS sì” e “PAS no” non è stata agevolata dai frequenti tentativi di strumentalizzazione di questo fenomeno all’interno di battaglie legali interminabili, laddove essa è spesso divenuta ricettacolo di rabbia o un’arma letale per sfogare la stessa. Ma il prezzo non può essere la sua negazione tout court, così come l’affannosa rincorsa alle certezze mediche, alla nosografia come necessità ideale non deve essere incubatrice del rischio di una gestione miope di tante vite. Non dobbiamo perdere di vista la sostanza rincorrendo i termini, né ignorare situazioni reali, drammatiche, perché in alcuni casi qualcuno ha provato a servirsene.

Un monito da tenere presente per etica professionale, responsabilità civile, umanità.

Dott.ssa Caterina Signa
Psicoterapeuta, PhD Neuroscienze
Vice Presidente DiAction – Associazione Divorzisti Italiani